Back to Black racconta l’inarrestabile caduta verso l’abisso della famosa Amy Winehouse, una del triste Club dei 27.
Si vive di luoghi comuni, di frasi fatte: genio e sregolatezza, la candela che brucia da entrambe le parti, meglio un giorno da leoni eccetera.
Nei fatti però non è mai consolante vedere quanto spreco di talenti abbiano portato questi concetti applicati nel mondo reale, in particolare in ambito artistico, come testimonia il famigerato Club dei 27 di cui fa parte a buon diritto anche Amy Winehouse.
Una personalità esplosiva, una voce stupenda, un talento compositivo notevole, un aspetto che la distingueva dalla media, tutti fattori che hanno determinato l’esplosione del suo successo.
Ma uno spirito fragile che più che le solite ferite dell’infanzia (molte, ma in linea con quelle di tanta altra umanità), non ha ricevuto un’educazione che la forgiasse e la rendesse capace di resistere ai troppi travolgenti cambiamenti che a un certo punto la vita le ha messo davanti.
Prima della fama, con l’amore della nonna.
Soprattutto il successo, con gli inevitabili prezzi da pagare, e un marito, l’amore della sua vita che quella vita ha invece contribuito a rovinare. Winehouse, arrivata al successo con il cd Back to Black nel 2007, dopo l’interesse già suscitato con Frank del 2003, è stata subito esaltata e poi immediatamente maciullata dai media, sottoposta con vera ferocia a una pressione insostenibile.
E non si parli del necessario prezzo da pagare perché le cose nel suo caso (e come per molti altri personaggi in un paio di decenni fra la fine e l’inizio del secolo scorso) sono davvero degenerate e le scene degli assedi dei fotografi erano, a vederle oggi, impressionanti e fastidiosi se non peggio i facili sarcasmi della stampa popolare.
Adesso arriva sugli schermi Back to Black, distribuito da Universal, un film di finzione diretto dalla chiacchierata Samantha Louise Taylor-Wood, che già di suo è un personaggio degno di nota.
Ormai famosa, con il presunto amore della vita.
Sposata con il forse futuro 007 Aaron Johnson, 23 anni meno di lei, che ha aggiunto il cognome di lei, Taylor, al suo, come dono d’amore, conosciuto sul set di Nowhere Boy, biografia di John Lennon del 2009.
Ha poi diretto, fra altre cose, anche l’altrettanto chiacchierato 50 sfumature di grigio ma è un’affermata fotografa, ha scritto anche canzoni e diretto video e spettacoli con i Pet Shop Boys.
La sceneggiatura è di Matt Greenhalgh già con la regista per Nowhere Boy, che inserisce bene le canzoni più note, come se i testi fossero preparatori o conseguenti ai fatti della sua vita narrati sullo schermo.
Le canzoni come inutile terapia psicanalitica.
Fatti che purtroppo non sono molti, almeno nel film: il suo primo contratto importante, qualche esibizione in luoghi che ancora non erano stadi, e la notte memorabile dei 5 Grammy nel 2008.
E poi il rapporto col padre, l’amore incondizionato per la sua “musa”, l’adorata nonna, l’incontro con l’uomo che lei deciderà essere l’unico per lei (anche se sembra che lui non ne fosse altrettanto convinto), la devastazione per l’abbandono aggravata dallo stress per la pressione dei detestabili media. E tanti eccessi e tanti tatuaggi.
Il difficile ruolo è stato affidato alla poco nota Marisa Abela, inglese del 1996, un mix etnico notevole (inglese, maltese, libica, polacca, russa) figlia d’arte alla sua prima grande occasione dopo particine in Barbie e Rogue Agent.
Eddie Marsan, un padre colpevolmente “distratto” e insensibile.
Abela ricanta le canzoni con un timbro vocale inevitabilmente diverso ma molto simile nello stile alla vera Amy (così come replica il suo marcato accento cockney, nella versione originale), in una notevole operazione di mimesi.
Un proletario e virile Jack O’Connell (visto da poco in Ferrari) interpreta con realismo il fatale Blake, bella la sua “scena di seduzione” al loro primo incontro al pub, sulle note delle Shangri-Las. La nonna e il padre sono interpretati di due ottimi attori, come sono Lesley Manville e Eddie Marsan.
Musiche originali di Nick Cave e Warren Ellis, da ascoltare specialmente la canzone sui titoli di coda. Cosa dunque non convince nell’operazione? La narrazione cerca di smussare l’eventuale fastidio che si provasse in precedenza nei confronti dell’ennesimo personaggio che tanto aveva e tanto ha sprecato.
Marisa Abela e Jack O’Connell, Amy e Blake, una coppia autodistruttiva.
Come dicevamo per Cobain, nel documentario Montage of Heck, ai morti ormai non importa, tutti loro ormai dormono, dormono sulla collina. Quella di Amy Winehouse resterà come una delle voci più interessanti fra quelle degli ultimi anni e vistosamente al di fuori delle logiche commerciali.
Sempre con qualcuno intorno, amici, amanti, parenti, musicisti, affaristi, era invece sola, incapace di ascoltare chi le stava degnamente accanto così come chi lo faceva indegnamente, così occupata nell’esprimere quell’indubbio talento che possedeva, che la possedeva, da ritrovarsi scoperta nei confronti del pesantissimo allegato che la fama si porta appresso, capace di sbriciolare ossa anche meno fragili delle sue.
La sceneggiatura si limita a fare del film un veloce riassunto della sua breve vita, da cui emerge una famiglia frantumata, il legame con la nonna materna (ex cantante e appassionata di musica americana, per Amy figura di riferimento assoluto), un padre di cui abbiamo letto e visto ritratti alquanto diversi da questo molto edificante.
Jack O’Connell interpreta un marito interessato alla fama della moglie.
E tanti amanti inutili e un grande amore distruttivo, per una che cercava solo di essere distrutta, ostinatamente. Così come era ostinata sul piano artistico, decisa a seguire il suo stile e non diventare la “spice girl” di nessuno. Niente di più, ma anche perché poco d’altro probabilmente c’era.
Ricordiamo il documentario Amy di Afis Kapadia (2016, un Oscar vinto), che aveva avuto dalla famiglia l’accesso a un’enorme quantità di materiale ed era ben più esauriente e meno ecumenico. L’impressione è che, scontenti di quel ben più severo ritratto, oggi i famigliari rimasti abbiano deciso per un trattamento meno critico.
Al di là dell’umana pietà, bisognerebbe però decidere cosa rende un personaggio degno di un biopic. La misera morte prematura, l’amore dei fan, il suo effettivo lascito come artista, la sua effettiva eredità come persona?
A seconda della risposta data, si deciderà se e quanto sia stato “giusto” questo film, questa narrazione dell’osannata interprete, della valida autrice, della indifesa e vulnerata ragazza, della giovane donna scomparsa anzi tempo, che però nulla toglie ma anche nulla aggiunge (anzi edulcora) a una storia ben nota.
Triste, ma che non riesce a intristire. Back to Black suscita gli stessi dubbi di tanti prodotti recenti, ne citiamo solo alcuni, Respect su Aretha Franklin, I Wanna Dance with Somebody su Whitney Houston e pure One Love l’ultimo film su Marley, banali carrellate su vite intensamente vissute, ma con lati che si è deciso di espungere per dipingere santini poco realistici ma anche poco appassionanti.
Scheda tecnica:
Regia: Sam Taylor-Johnson
Cast: Marisa Abela, Jack O’Connell, Lesley Manville, Eddie Marsan, Juliet Cowan
Distribuzione: Universal Pictures Genere: biografia, musicale, drammatico
Genere: biografia, musicale, drammatico