Road House – Recensione

Torna il “duro” della Road House in una versione nobilitata dalla presenza di Jake Gyllenhaal.

Nel 1989 era uscito il film Road House, in Italia Il duro del Road House, con il sempre compianto Patrick Swayze, una trama elementare, sempiterna, storia di ribellione ai soprusi, narrata con un tono che per quegli anni era quasi sobrio.

Oggi si è deciso di farne un remake, con Jake Gyllenhaal come protagonista, spostando l’azione da Jasper, Missouri alle più attrattive Keys, una collana di isolette sospese sul mare del Golfo del Messico, in direzione di Cuba.

Su una di queste si trova un bellissimo locale, che forse aveva frequentato anche Hemingway, e la proprietaria è una ragazza con molto pelo sullo stomaco. Dopo aver visto un combattimento in cui Dalton, il nostro protagonista, dimostra in modo trasversale di saper gestire bene la violenza, gli propone di lavorare nel suo locale, che è sistematicamente devastato da risse sempre più violente.

Con scarso entusiasmo (ma si deve pur campare) Dalton accetta e inizia il lavoro con i suoi metodi isoliti. Tutto sembra andare per il verso giusto, l’uomo, schivo e riservato, si ambienta anche bene con alcuni abitanti del paesino.

Jake Gyllenhaal

Jake Gyllenhaal si impegna per rendere credibile il suo personaggio.

Ma c’è un “cattivo” che trama da remoto e sta usando una banda di motociclisti come longa manu. Inevitabile arrivare a una conclusione cruenta, dopo un’escalation di crudeltà.

Road House è un film che non è venuto bene, come un piatto di cui non si sia ben deciso che sapore dovesse avere e si siano dosati male gli ingredienti.

A depistare le aspettative in effetti c’erano i trailer (ma non tutti li guardano, per evitare spoiler) e soprattutto la presenza di Jake Gyllehaal, attore “di livello”, che oltretutto si era sottoposto a una preparazione atletica assai pesante, per ingigantire e scolpire un fisico già ben addestrato (lo ricordiamo in Southpaw).

Jake Gyllenhaal Conor McGregor

Dalton fronteggia quello che sarà il suo nemico giurato.

Quindi il film doveva valere un tale sacrificio, si pensava. Road House introduce un personaggio dal potenziale interessante anche se non originalissimo, l’uomo che ha vissuto di una tale violenza, che adesso quasi non la esercita più. Le cause del suo trauma le apprenderemo attraverso i soliti flashback progressivi, ma si riveleranno poca cosa viste le premesse.

In ogni modo il contrasto fra la risolutiva violenza delle sue reazioni, dopo estreme provocazioni, e la sua diplomatica gentilezza, l’aria svagata con cui si approccia all’avversario ignaro, lo distinguono da altri personaggi simili.

L’ambientazione anche è interessante, il bellissimo locale sul bordo di un’isoletta delle Keys, l’originalità della sua architettura, la volitiva proprietaria e anche il resto del personale sono ben tratteggiati, pur brevemente.

Jake Gyllenhaal Billy Magnussen

Jake Gyllenhaal e Billy Magnussen.

Un discorso a parte la tipologia dei musicisti che si alternano a suonare nel locale, tutti musicisti navigati, Rockin’ Dopsie, Tommy McLain, C. C. Adcock, con brani tonici di blues rock, cajun e swamp pop, che si impongono all’attenzione mentre suonano dietro una rete metallica, come in Blues Brothers (non dimentichiamo che nell’originale tutti i brani al bar erano eseguiti dal grande chitarrista Jeff Healey).

Il movente dei cattivi è usuale (e infatti poco ce ne importa) e pure loro sono ben scelti (Billy Magnussen e scagnozzi dai diversi caratteri, compreso il capo della Polizia corrotto, affidato al solito Joaquim de Almeida).

La bella che conquisterà il cuore di Dalton è bella infatti, ma poco carismatica (Daniela Melchior), meglio l’altra “donna” che suscita l’interesse più di sostanza del solitario personaggio, la ragazzina Hannah Love Lanier con suo amato papà, due da difendere a ogni costo dopo che con la loro gentilezza hanno conquistato il vulnerato cuore dell’uomo.

Conor McGregor

Conor McGregor, un combattente di MMA, attore non professionista.

Il villain supremo, lo psicopatico di turno, è il pugile e combattente di MMA Conor McGregor (personaggio dalla vita turbolenta anche nella realtà, su Netflix si può trovare un documentario che ne parla, McGregor Forever), al quale è stato imposto di accentuare la sua tracotante follia, da Tom Hardy sotto steroidi e allucinogeni.

E poco lega con il tono che Gyllenhaal attribuisce al suo Dalton, che è ovviamente la cosa migliore del film e spiace vedere così sprecato (lui apprezzato invece di recente in Guy Ritchie’s The Covenant).

Resteranno nel ricordo le mazzate che i due si infliggono nei loro due scontri, che sono un misto enhanced di MMA, taekwondo, capoeira e kickboxing dai risultati devastanti. Anche la prima rissa nel locale è ben coreografata e ben ripresa, e suggestiva è una parentesi alla Miami Vice su una secca in mezzo al mare.

Jake Gyllenhaal Conor McGregor

Gyllenhaal vs McGregor, cose da spezzare in due (cit.)

In altre sequenze d’azione si nota qualche intervento in CG mentre in altre si apprezzano i veri stunt. Da guardare anche i titoli di coda. Tutte le nostre perplessità vengono in parte spiegate quando sui titoli di coda compare come produttore il nome di Joel Silver, personaggio testosteronico, la sua filmografia è una gioia per l’appassionato di action.

Si va da I guerrieri della notte al primo Road House, alle serie Arma letale, Die Hard e anche i 4 Matrix e infiniti altri film di quel genere, arrivando a The Nice Guys e Suburbicon.

La sua presenza deve avere influito sulle scelte del regista Doug Liman che pure ha un onorato passato di titoli sempre commerciali come The Bourne Identity, Mr. & Mrs. Smith, Edge of Tomorrow, Barry Seals.

Patrick Swayze

Il poster del film del 1989.

Su Liman alla fine è approdato un progetto che girava dal 2013, incappando nel suo percorso anche nella pandemia, mutando toni e registri a ogni cambio di possibili sceneggiatori/registi, finendo poi direct to streaming su Prime, con la contrarietà comprensibile del regista.

E va detto che il vecchio film nella sua linearità era più omogeneo e perfino più drammatico. Il remake mantiene la struttura simil-western (piccola comunità vessata da malvagi e potenti ricconi malavitosi, che necessita di un Pale Rider).

Resta che il taglio dato al personaggio e la misurata interpretazione di Gyllenhaal non legano con l’iperbole dell’azione, con il grottesco personaggio di McGregor e con qualche parentesi più umoristica, sprecando così anche un finale sobrio, che conferma che, quando un cavaliere solitario ha fatto il suo lavoro e si allontana nella luce del tramonto, lui ha vinto, ma qualcosa ha anche perso.

Scheda tecnica:

Regia: Doug Liman

Cast: Jake Gyllenhaal, Conor McGregor, Daniela Melchior, Billy Magnussen, Jessica Williams, Lukas Gage, Joaquim de Almeida, J. D. Pardo, Arturo Castro, Hannah Love Lanier

Distribuzione: Amazon Prime

Genere: drammatico, azione

Pubblicato da Giuliana Molteni

Vado al cinema dalla metà degli anni ’50 e non ho mai smesso. Poi sono arrivate le serie tv.