Con The Covenant Guy Ritchie ci racconta una classica storia di guerra, di solidarietà umana, inserita in un contesto attuale.
Siamo in Afghanistan, nel 2018. Sappiamo che come “retaliation” per l’11 settembre, il 7 ottobre del 2001 gli USA hanno invaso lo “stato canaglia”, con il pretesto di inseguire Bin Laden, in realtà per avere il pretesto per espandersi poi velocemente in Iraq.
Incontriamo il Sergente John Kinley, veterano del conflitto in Medio Oriente, che comanda una squadra addetta alla ricerca di depositi e fabbriche di esplosivi dei talebani. Come interprete gli viene assegnato Ahmed, un uomo che ha i suoi motivi per accettare quell’impiego, non filo americano, ma nemmeno amante del regime dei talebani.
Un giorno partono per una missione che degenera in una strage. Costretti alla fuga, John, ferito gravemente, e Ahmed si addentrano in un territorio montuoso, braccati dai talebani ben decisi a catturare due prede così preziose e odiate. La fuga lunga e angosciante sarà resa ancora più dura dalle condizioni del territorio e del clima.
Dopo tante sofferenze e tanti rischi, John sarà recuperato e rimpatriato. Ma il promesso permesso di soggiorno per l’uomo che gli ha salvato la vita non arriva, John si scontra contro una burocrazia spietata più dei talebani. Intanto Ahmed e famiglia sono in fuga, minacciati dalla vendetta di quelli che lui ha beffato.
Stranamente gli ultimi film di Guy Ritchie sono finiti tutti direttamente in streaming, passando dal più glamour The Gentleman al più duro Wrath of Man, adesso su Sky è visibile Operation Fortune, che si collega al filone dal lui prediletto, le gangster story più surreali e ludiche.
E ci sorprende adesso con un film diverso come The Covenant, in streaming su Prime Video, che dopo un avvio da semplice film di guerra, come tanti che abbiamo visto in questi anni, racconta una storia che riflette molte altre realmente avvenute nei lunghi anni di occupazione americana.
Infatti Ritchie nel finale correda il film con una serie di foto di soldati americani insieme ai loro interpreti. E ci ricorda le tragiche conseguenze del frettoloso abbandono del territorio.
Nel suo film Ahmed fa quello che tutti dovrebbero fare nella vita, si prende le sue responsabilità nei confronti di una persona che per lui si è impegnata correttamente come suo superiore, mettendo a rischio la sua vita mentre lo fa, ma pagandone le conseguenze anche in seguito.
John sa che il suo interprete non ha pensato che “teneva famiglia”, ha fatto quello che non poteva non fare e in un mondo di persone civili dovrebbe essere sempre così. E ha poi affrontato con dignità le conseguenze. E da queste John lo deve salvare.
Jake Gyllenhaal torna fra le sabbie del Medio Oriente dopo Jarhaed del 2005 anche se aveva frequentato le conseguenze della guerra in Rendition del 2007, attore eclettico, sobrio e intenso come spesso sa essere.
L’iracheno Dar Salim, visto in The Devil’s Double e nelle serie The Boys, Trapped e Game of Thrones, è il coraggioso interprete, mai servile, mai umile, mai timoroso. Ricompare Antony Starr, il mai dimenticato Patriot di The Boys, ma solo in un piccolo ruolo nella parte conclusiva del film. Jonny Lee Miller è un Colonnello con molti trascorsi con il protagonista.
A Emily Beechm è affidato il ruolo piccolo (ma importante ai fini della storia) della moglie solidale, perché se ci si è innamorate di un uomo per i suoi principi, bisogna accettare che poi a questi si adegui, anche a scapito del suo interesse. Ritchie scrive insieme a due collaboratori abituali, Ivan Atkinson e Marn Davies (anche l’autore delle belle musiche, Christopher Benstead, è alla sua quarta collaborazione con il regista e l’addetto al montaggio James Herbert è alla nona).
La narrazione si divide idealmente in tre parti, il prologo che porterà all’evento da cui si svilupperà il cuore della narrazione. Che consiste nella lunga e drammatica fuga di Ahmed che non abbandona John, lo accudisce come può trascinandosi per sentieri di montagna, cercando di schivare la caccia feroce dei talebani.
Ma la vicenda non si esaurisce qui, perché poi prenderà il via quello che è il fulcro del film, per arrivare al punto che conta per il regista e che fa distinguere il film da altre storie belliche di genere. Perché The Covenant non è Lone Survivor o Green Zone o The Outpost.
E’ un film appassionante, ben girato formalmente da un regista che dimostra di saper cosa fare anche al di fuori del suo genere prediletto, molti sguardi e pochi dialoghi rispetto ai logorroici protagonisti dei suoi precedenti noir urbani, scene d’azione sempre efficaci.
L’intervento americano in Afghanistan, sotto amministrazione Bush, è cominciato il 7 ottobre del 2001, con l’invio di 1300 soldati, meno di un mese dopo gli attentati dell’11 settembre, con lo scopo dichiarato di catturare Osama Bin Laden. Che sarebbe stato in effetti ucciso in quell’area, ad Abbotabad (Pakistan però), il 2 maggio 2011.
Nel dicembre dello stesso anno erano 98.000. L’Afghanistan perderà però la priorità negli interessi americani nel 2003 con l’invasione in Iraq, per riprenderla sotto l’amministrazione Obama dal 2009, con l’intento ufficiale di aiutare il governo afghano nella lotta contro le sempre più numerose offensive talebane, corrispondente però a una graduale riduzione sul campo.
Questa pretestuosa occupazione non ha risolto nessun problema del paese ma è costata un infinito numero di morti fra combattenti di ambo le parti e fra civili e ha soprattutto devastato il paese. E tanti altri morti ha provocato con l’abbandono dell’agosto del 2021, più di 300 “collaborazionisti” ammazzati insieme alle loro famiglie. Dopo che negli anni almeno 50.000 afgani sono stati impiegati come interpreti e vari altri incarichi con promessa di Visa, centinaia di ex collaboratori ancora vivono in precaria latitanza.
The Covenant può sembrare un film di guerra come se ne facevano una volta, quando non ci si interrogava troppo e i buoni erano buoni e basta (americani in generale) e la ragione stava granitica solo da una parte (la “nostra”). Ma va detto che i talebani sono poco simpatici a tutti, compresa gran parte della popolazione locale, sulla quale hanno storicamente sempre infierito. In questi film gli americani sono lì e devono salvare e salvarsi. Come per i film sopra citati e per tanti altri, non ha senso risalire alle radici del peccato originale.
Sono come i pionieri assediati dagli indiani, come umani circondati dagli zombi o i terrestri pronti a essere nebulizzati dagli alieni. O come gli americani a Fort Alamo, circondati dai messicani. E in ogni modo, non è quello il fine della narrazione. Resta che l’obiezione sacrosanta per cui non si dovrebbe parteggiare per i personaggi americani, in quanto occupanti e quindi non meritevoli di pietà, è comprensibile.
The Covenant però mira a raccontare una storia di uomini, di amicizia virile in condizioni di estrema difficoltà, come altre volte Ritchie ha messo in scena, anche nei suoi gangster movie più iperbolici (che ricordavamo nella recensione del film Rheingold di Fatih Akin). Dove comunque c’è sempre gente che si muove secondo principi morali precisi, dove le parole sono poche ma contano.
Come si specifica a schermo già nero, The Covenant significa legame, promessa, impegno. Sono valori che andrebbero rispettati, sempre e dovunque. Lo fa un singolo individuo, a maggior ragione dovrebbe farlo una Nazione.
Scheda tecnica:
Regia: Guy Ritchie
Cast: Jake Gyllenhaal, Dar Salim, Antony Starr, Jonny Lee Miller, Emliy Beecham
Distribuzione: Amazon Prime
Genere: guerra, azione, drammatico