Pinocchio di Guillermo Del Toro – Recensione

L’ennesima rilettura del burattino di Collodi.

Quante volte si può riprendere un grande classico della letteratura, quante volte si può rileggere, aggiornare, adattare una storia scritta in tempi lontani? Infinite volte, certamente, purché ogni rilettura porti qualcosa di nuovo, senza però stravolgere troppo il senso originale dell’opera. Pinocchio, libro pubblicato nel 1883, è stato scritto da Carlo Collodi con intento pedagogico, con molte connotazioni moralistiche (oggi i genitori inorridirebbero), divenuto parte della cultura universale (a chi dice le bugie si allunga il naso).

La nota storia è stata portata su grandi e piccoli schermi più volte, per il passato citiamo una versione televisiva con Nino Manfredi nel 1972, da noi passata alla storia. Ma lo hanno frequentato anche tanti altri attori e ben diversi, da Totò a Carmelo Bene, da Danny Kaye a Martin Landau e Bob Hoskins. Oggi se ne è impossessato Guillermo Del Toro, che si rigirava in testa il progetto fin dal 2008 e che è riuscito a realizzarlo solo grazie all’entrata in scena del produttore Netflix.

Ha contribuito anche il suo incontro con Lisa Henson, della The Jim Henson Company (i Muppett, Dark Crystal, Labyrinth), che aveva a suo tempo acquistato i diritti per un progetto che includeva le illustrazioni di Gris Grimly, rimaste come fonte di ispirazione anche per il regista messicano.

Nella versione scritta dallo stesso Del Toro insieme a Patrick McHale, Geppetto è uno stimato falegname in un paesino italiano nei primi del ‘900. Già dolorosamente vedovo, gli è rimasto solo l’amato figlio, al quale è legatissimo. Ma un bombardamento durante la Prima Guerra Mondiale glielo uccide. Devastato dal dolore si lascia andare e sotto effetto dell’alcol scolpisce un burattino che dovrebbe ricordargli il figlio.

Pinocchio Guillermo Del Toro
Un padre disperato che cerca di ricrearsi un figlio.

Nella notte una magica apparizione azzurrina compare a dargli vita. Al Grillo parlante Sebastian, che si era rifugiato nella casa, tocca il compito di accudire e proteggere Pinocchio, che è all’oscuro di ogni regola di vita umana, sembra solo un ribelle indisciplinato e per questo viene rifiutato dal suo creatore. Pur con qualche leggera variazione, fin qui la storia ricorda l’originale, come avevano fatto le altre più recenti trasposizioni, quella per noi splendida di Matteo Garrone, con la più giusta rilettura in senso socio-politico, e quella in animazione di Robert Zemekis, che si limitava a rifare la prima versione Disney del 1940. In precedenza, nel 2002, c’era stata la lettura di Roberto Benigni, più ortodossa.

Da qui in avanti però a Del Toro interessa un altro discorso, che probabilmente in Italia irriterà parecchi personaggi, diventando forse oggetto di chiacchiere da talk show. L’impresario Conte Volpe, personaggio inventato dalla nuova sceneggiatura, che ne fa un misto fra Mangiafuoco e il Gatto e la Volpe, lo induce a esibirsi nel suo circo e questo mette Pinocchio nel mirino della propaganda fascista, che lo arruola come una specie di Giovane Balilla. A questo punto il Paese dei Balocchi originale, con i suoi asinelli, diventa tutt’altro. Il paesino infatti è sotto l’occhiuto controllo del Podestà, padre di un Lucifero meno negativo dell’originale, pronto a sacrificare senza esitare in nome dei suoi ideali distorti anche il proprio figlio.

Dove nel paese dei Balocchi l’ammonimento era che l’ignoranza avrebbe portato a un futuro da poveracci e da carne da macello, anche per Del Toro i ragazzini che si fidano dell’Autorità saranno triturati dal regime, perché nella sua versione vengono reclutati dal regime fascista, compreso Pinocchio, e portati in un campo di addestramento, per imparare a combattere e uccidere. Questa trasposizione in era fascista permette a del Toro di mettere in scena un Mussolini grottesco e stolido e un mondo di adulti che piega la testa di fronte a simili atrocità. Il suo spostamento temporale fa quindi della disobbedienza non più un atteggiamento provocatorio e da reprimere, ma una necessità che salva il mondo dagli autoritarismi che invece impongo “credere, obbedire, combattere” e dove le vere marionette sono quelli che chinano la testa e obbediscono ciecamente senza esercitare la propria capacità di scegliere.

Nel Pinocchio di Del Toro invece conta la famiglia, nucleo invece sempre devastato nell’interesse del Potere in qualunque momento della Storia. In questo senso però, è imparagonabile la bellezza e l’efficacia del significato che emergeva dal film Il Labirinto del Fauno, forse il più bello di Del Toro, che già allora tornava su temi a lui evidentemente cari, già sviluppati ne La spina del Diavolo, storie nelle quali sono i bambini a dover affrontare gli orrori causati dagli adulti.

Un’altra personalizzazione di questa versione sta nella raffigurazione delle due fate, sia quella buona (la Turchina), sia un’altra che incontra Pinocchio nell’aldilà, ad ogni suo trapasso, originali creature che ricordano l’iconografia messicana, mentre i personaggi, mossi in stop motion in CG, a tratti ricordano le statuine Thun. Belle le musiche di Alexandre Desplat, mentre le canzoncine inserite qua e là, sono dimenticabili. Visivamente il prodotto è perfetto, e come poteva essere diversamente, e l’elenco degli attori che si sono prestati per dare voce ai personaggi è impressionante.

Pinocchio  Guillermo Del Toro
L’impresario Conte Volpe, un “cattivo, mix fra Mangiafuoco e il Gatto e la Volpe.

Al di là della rilettura e della pur originale metafora, la parte più toccante sta nel pupazzo di legno Pinocchio, creato per consolare della perdita di un figlio vero, che non sarà invece mai rimpiazzabile, di cui la copia non sarà mai all’altezza, sempre respinto da chi invece lo ha messo al mondo. E commuove nel suo patetico e instancabile sforzo per cercare con ogni modo di essere all’altezza delle aspettative, per dare al padre quello che lui pensa di non poter mai più avere.

Qui per noi sta la parte più sentimentale e più apprezzabile del film. Ci sembra che ormai da questo libro sia stato tratto ogni significato possibile, speriamo che per un po’ venga lasciato a riposare in pace negli scaffali delle librerie.

Scheda tecnica

Regia: Guillermo Del Toro, Mark Gustafson

Cast (voci): Gregory Mann, David Bradley, Ewan McGregor, Ron Perlman, Tilda Swinton, Christoph Waltz, Cate Blanchett, John Turturro

Distribuzione: Netflix

Genere: animazione, fantastico

Pubblicato da Giuliana Molteni

Vado al cinema dalla metà degli anni ’50 e non ho mai smesso. Poi sono arrivate le serie tv.