Ziggy Stardust and the Spiders from Mars è lo splendido documentario restaurato dell’ultimo concerto di David Bowie nei panni del suo alter ego.
Nel 1973 D. A. (Don Alan) Pennebaker, che aveva già realizzato dei documentari in ambito musicale, fra cui Monterey Pop, Don’t Look Back con Bob Dylan, viene mandata dalla RCA al teatro Hammersmith di Londra per filmare un concerto, Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, che rappresentava la fine dell’Aladdin Sane Tour e il congedo dell’autore, David Bowie, con il personaggio che in quel periodo finalmente gli aveva dato la fama mondiale.
Perché Bowie, pur già conosciuto, con alcune hits all’attivo e sotto contratto discografico di una Major, era ancora in attesa del riconoscimento globale, ancora in cerca di una sua “definizione” come personaggio pubblico.
Che aveva trovato con quello che per un breve momento è stato il suo alter ego, Ziggy Stardust, personaggio però così ingombrante da averlo seguito anche quando la sua ispirazione musicale e la sua vita non potevano essere più lontane da quel periodo.
Pare che Pennebaker, appassionato di glitter rock, pensasse di andare a filmare Marc Bolan, chissà se l’aneddoto è vero, e la RCA voleva solo materiale per ricavarne qualche video.
Ma arrivato sul posto il regista aveva capito che ne sarebbe potuto uscire bel altro, un vero e proprio film e per anni si è impegnato in tale senso, riuscendo a presentarlo al pubblico solo nel 1979, in un festival.
Poi aveva dovuto attendere il 1983, quando il film era stato distribuito in tutto il mondo dalla Fox, mentre come produttore figurava il truffaldino manager di Bowie Tony Defries.
Uscito in seguito su DVD, era lentamente scomparso dalla circolazione, se non per sfocati filmati su Youtube. Oggi il film, girato in 16 mm, viene rimesso in circolazione rimasterizzato in 4K e distribuito nelle sale da Nexo Digital il 3,4 e 5 luglio in occasione del suo cinquantenario.
Nel documentario sono presenti tutte le hits del momento, oltre a qualche breve ripresa nel backstage, con un veloce incontro con Ringo Starr, e l’ospitata finale di Jeff Beck, a lungo esclusa dal documentario per questioni di diritti, uno dei pezzi in cui viene eseguita una Jean Genie di incredibile potenza.
In questo documentario abbiano anche modo di apprezzare l’uomo che più è rimasto in ombra mentre al fianco di Bowie concorreva alla resa delle sue canzoni, il chitarrista Mick Ronson.
Possiamo finalmente rivedere le immagini, ripulite e nitide, nella difficile resa di una scena poco illuminata e spesso con luci rossastre, e ascoltare un audio in 5.1 che resta inevitabilmente tagliente e secco rispetto a quanto siamo abituati a sentire oggi.
Ma a rifulgere in tutto il suo carisma è ancora una volta lui, Bowie, a 26 anni già incredibilmente sicuro di sé, del proprio fascino, della propria incredibile presenza scenica. Che per l’epoca, non dimentichiamolo, era davvero oltraggiosa, ma rifletteva, incarnava lo spirito del tempo, almeno nella pallida, repressiva Albione.
Mentre guardiamo questo concerto dobbiamo pensare che Bowie aveva già la testa altrove, in quegli anni frenetici lui realizzava un disco, lo abbandonava, preso già dal progetto successivo, consumando generi musicali e personaggi e look a getto continuo.
Era già stato un efebico preraffaellita con capelli e gonna lunghi, aveva già scritto quella Space Oddity che sarebbe stata scelta dalla BBC come canzone ufficiale per la notte dello sbarco sulla Luna, aveva già pubblicato e oltrepassato Hunky Dory, uno dei suoi dischi più belli, pochi mesi prima aveva pubblicato un altro capolavoro, Aladdin Sane, ed era appunto in fase di uscita da Ziggy e la sua rise and fall, mentre aveva già la testa nel progetto Diamond Dogs (maggio 1974) e nella turnée americana che avrebbe avuto inizio in giugno (ma intanto finiva di registrare l’album di cover Pin-Ups).
Bowie è un uomo di cui è difficile parlare, specie se si è fan, perché si rischia l’eccesso di ammirazione, la santificazione. Nessuno comunque avrebbe potuto allora immaginare che la sua carriera sarebbe stata tale, che la sua morte avrebbe generato un tale culto, sempre rispettoso, sempre adorante. Probabilmente nemmeno lui, nella sua coolness sempre divertita e distaccata.
Nessuno che allora avesse deciso di sceglierlo come proprio idolo, come personaggio da seguire fedelmente per sempre, finché morte non ci avesse separati, nella musica e nei (pochi) film, nessuno poteva immaginare la durata, l’intensità che questo legame avrebbe rappresentato per la propria vita.
Del resto questo è un idolo: “persona o cosa amata o venerata, posta su un piano superiore all’umano”. Ma anche “immagine, fantasma, mito, illusione creati e accarezzati dalla fantasia.” Sono stati decenni di carezze, ci mancheranno per sempre.
Scheda tecnica:
Regia: D. A. Pennebaker
Cast: David Bowie, Mick Ronson, Mick Woodmansey, Trevor Bolder, Jeff Beck
Distribuzione: Nexo Digital
Genere: documentario