Ken Loach con The Old Oak ci racconta una storia di difficile integrazione in una società ridotta economicamente allo stremo.
Siamo nel 2016 nel Nord Est dell’Inghilterra, in una cittadina di una zona economicamente depressa, dopo la progressiva chiusura delle miniere che costituivano il principale sostegno della locale economia. Non è stata creata nessuna alternativa e la disoccupazione con i conseguenti sussidi è diventata la normalità per gli abitanti.
A stare peggio è la generazione di mezzo, gente cresciuta senza nemmeno la dignità di un lavoro per cui si è dovuto lottare, soffrire, per cui a volte si è anche morti. Ma quelli erano i loro genitori.
Gli abitanti di oggi sono cresciuti nella miseria dell’assistenzialismo minimale, quello che lascia sopravvivere a farsi due birre al pub ma niente più, se non a sfogare risentimento verso tutto e tutti. Gente sconfitta, pervasa solo da generici rimpianti di passate epoche mai vissute, e rancore, acrimonia, invidia, senza però nessuna spinta per tentare di migliorare la situazione.
Tutti questi sentimenti trovano in canale giusto per scaricarsi sul gruppetto di poveri siriani, esuli dal loro paese dopo l’illusione della Primavera araba, gente per bene, scappata davvero per necessità (consigliamo anche il recupero del film Le nuotatrici su Netflix), scaricati con incosciente indifferenza dal Potere nel depresso paesello.
L’esule che non vuole rinunciare alla sua dignità.
Come si può pensare di far calare dall’alto in una comunità già pesantemente disastrata e abbandonata a se stessa, un gruppo di poveretti per di più di altra etnia, lingua e religione? Chi semina vento raccoglie tempesta, possibile che nei vari Ministeri addetti nessuno ci arrivi?
Inevitabile sarà tutto quanto di brutto succederà, sorprendenti saranno i pochi spiragli di speranza. Perché come sempre l’essere umano può dare il suo meglio e il suo peggio, è solo questione di decidere. Fra i paesani, molti sono neutri e non ostili a priori, anche perché il campionario di umanità dei profughi è composta da gente più che civile, molte donne per di più e ragazzi e anziani.
Ma c’è un gruppetto dei soliti orribili individui, sul genere di quelli che sentiamo sproloquiare nel talk show ma anche al banco di un bar o alla fermata del tram, che sputano velenose e offensive opinioni e vivono la situazione come un sopruso personale, come se gli “invasori” fossero loro colpevoli della situazione.
TJ e la sua unica amica.
Non tutti sono stati sempre così però, ci dice Ken Loach in questo suo nuovo film, scritto come sempre dal fido Paul Laverty, alcuni si sono lasciati imbarbarire dalla vita, che non è certo stata tenera. Ma tutta questa cattiveria migliorerà la loro situazione, risolverà qualcosa?
No, sarà solo l’ennesimo tassello della guerra fra poveri che fa tanto comodo al Potere in qualunque Stato. In The Old Oak, distribuito come sempre da Lucky Red, a fare la differenza sarà TJ, il proprietario del vecchio, cadente pub del paese, uno su cui la vita ha infierito ma che non si è lasciato incattivire.
Ma le cose brutte, se devono succedere, succedono e il film si chiude senza un finale ottimistico, senza intenti edificanti, come la lunga fotografia di una situazione senza soluzione.
Un mondo migliore è possibile?
Riuscendo anche a commuovere con estrema sobrietà, senza ricorrere a espedienti retorici, senza che la bella colonna sonora di George Fenton (altro compagno di viaggio di Loach) si abbandoni a temi strappalacrime. Ken Loach, 87 anni, viene spesso accusato di fare film a tesi, costruiti a tavolino per sostenere il suo discorso “di sinistra”.
Eppure negli anni, spaziando anche fra argomenti diversi (conflitto irlandese, guerra civile spagnola), ci ha dato una serie di film che sono stati precisi atti di accusa nei confronti di governi e persone (perché tutto parte dalle persone, dalla famosa “gente”), quasi documentaristici nella loro descrizione di una realtà oggettivamente esistente, spesso straziante, pericolosamente vicina a quanto succede anche oggi intorno a noi. E non voler notare le somiglianze è una pratica come minimo indice di poca saggezza.
C’è anche un discorso importante sulla memoria, perché forse ricordando si può conservare quella dignità che la vita sembra accanirsi a toglierci, e questo si ritrova nelle vecchie foto che TJ conserva nel suo stanzone in disuso, e nella passione di un’immigrata per la fotografia, che impiega per testimoniare il calvario suo e della sua gente.
E questo vale anche per i film che Loach ci lascerà come eredità, storie di finzione che però tracceranno un preciso quadro di anni di gestione del potere da parte di establishment che del “popolo” sono buoni solo a riempirsi la bocca..
E non è “di sinistra” mostrare come sia il senso di comunità a essere stato devastato negli ultimi decenni, che sarebbe invece la base da cui organizzare una resistenza civile ai soprusi del Potere.
Invece fatti come quelli narrati da Loach mostrano come le divisioni vengano indotte dall’incoscienza delle autorità, quando non ricercate, provocate ad arte. Perché lo sapevano bene già gli antichi romani: divide et impera. E i Governi di oggi lo hanno imparato benissimo. Chi volesse, potrebbe recuperare un altro film su questo argomento, che non lascia indifferenti, Green Border.
Scheda tecnica:
Regia: Ken Loach
Cast: Dave Turner, Ebla Mari, Trevor Fox, Jordan Louis
Distribuzione: Lucky Red
Genere: drammatico