The Bikeriders racconta una storia di ribelli e Harley Davidson, un omaggio a personaggi e atmosfere in stile anni ’60, con risultato ambiguo.
La Harley Davidson è una moto storica, nata nel 1903 a Milwaukee (vedi serie tv Harley and the Davidson del 2016 con Michiel Huisman e Bug Hall). Moto ufficiale anche per le operazioni belliche dai tempi di Pancho Villa, passata attraverso la Grande Depressione, aveva resistito anche all’aumento delle vendite delle automobili, ma era rimasta colpita dalla concorrenza con i modelli inglesi e poi giapponesi, iniziando un periodo di crisi negli anni ’50.
Questo nonostante il rilancio dovuto al successo di film come Il selvaggio (1953 con Marlon Brando, ispirato a un vero fatto di cronaca avvenuto nel 1947), di The Wild Angels di Roger Corman nel 1966 e di Easy Rider con Peter Fonda nel 1969.
Ha dovuto aspettare gli anni ’80 per godere di un miglioramento di mercato, anche se negli USA veniva impiegata in tanti film famosi (Terminator 2, Ghost Rider, Captain America – Il primo vendicatore, la serie tv Renegade, I diari della motocicletta e mille altri). Poi è arrivato un ulteriore rilancio nel 2008 con le 5 stagioni della memorabile serie tv Sons of Anarchy e poi il suo spin off Mayans M.C.
Una moto mitica ma rumorosa (la casa madre ha cercato anche di brevettare il famoso suono del suo motore definito “potato potato”), il che la fa diventare aggressiva specie nei centri abitati. Ed è una moto scomoda, soprattutto per i lunghi viaggi. Eppure l’America ne ha fatto un mito (ma lì sono bravissimi a fare un mito anche di qualcosa che non lo merita), divenuta simbolo di libertà e ribellione.
Un eroe, bello e dannato, ma neanche tanto.
Chissà come andrà adesso dopo il film The Bikeriders, che cerca di rinverdire antichi fasti legati a questo marchio. Il film è tratto dal libro fotografico di Danny Lion del 1968, reportage fotografico dei suoi 4 anni di convivenza con il Moto Club Outlaws MC nella Contea di McCook, Illinois (che sarebbe diventato uno dei principali avversari degli Hells Angels), nel film chiamato Vandals di Chicago.
E siamo infatti nel piatto nulla del Midwest, in quegli anni ’60 ancora non esplosi, almeno in quelle aree, nella contestazione globale di quel decennio, su cui aleggia comunque l’ombra del Vietnam. Il maturo camionista Johnny (Tom Hardy) aggrega intorno a sé un gruppetto di personaggi di varia età e provenienza, tante serate in una club house a ritrovarsi per consolarsi di vite insoddisfacenti, di disagi famigliari.
Fra loro, bello come un angelo caduto, anche se non particolarmente loquace, c’è Benny (Austin Butler), del quale si innamora al volo la ragazzetta perbenino Kathy (Jodi Comer), quando lo incontra per caso, che se lo sposa e inizia una difficile convivenza col gruppo, mentre cresce una rivalità fra lei e Johnny sul “possesso” di Benny.
La ragazza working class che si innamora del “ribelle”.
Nel frattempo il bar passa dall’essere un semplice luogo di ritrovo per scontenti e falliti vari, a un club ben strutturato, che però subirà le conseguenze del suo successo, costretto ad accettare troppi nuovi e non controllati membri, per poi crollare e diventare una vera e propria gang criminale.
Tutto viene raccontato da Kathy, come fossero tante parti delle registrazioni effettuate da Lion (che è interpretato da Mike Faist di Challengers). Un gran cast comunque, che oltre ai già citati, vede molte facce note, Boyd Holbrook, Norman Reedus, Karl Glusman, Damon Harriman, oltre al sempre grande Michael Shannon, l’unico che in un paio di scene riesce a dare un minimo di spessore al suo personaggio.
Possibilità che la sceneggiatura non concede agli altri. Jodie Comer, saggia ragazza che terrà duro, fa l’accento americano (abbiamo visto il film in originale), idem Tom Hardy che per di più recita con una voce di testa inspiegabile. Per una volta potremmo consigliare la versione doppiata.
Un capo, una figura paterna.
A Butler sono riservate poche battute, perché il suo personaggio non ha molto da dire, perché non è strutturato per farlo? Si resta nel dubbio. Chiaro che Kathy non lo ama in quanto fine intellettuale. Qui viene esibito in tutta la sua bellezza, che era stata nascosta dalla truccatura in Dune 2.
The Bikeriders, distribuito da Universal, sembra paradossalmente un film fuori tempo massimo, quando lo scontento anche oggi non manca certo. Ma se la voglia di protesta, di ribellione, di fuga, si riduce a ubriacarsi, fumare, drogarsi, fare risse, viaggiare in minacciosa e rumorosa formazione, allora il Sistema, per protestare contro il quale si sta facendo tutto ciò, ha comunque vinto. Perché l’autodistruzione è sconfitta.
I personaggi del film non hanno nessun altro scopo nella vita se non lavorare il minimo per sopravvivere, comprare sigarette e birre e whisky in quantità industriale, sfondarsi di tutto durante lieti raduni in cui magari finire ubriachi a fare a botte, mentre le mogliettine attendono come soprammobili che i maschi abbiano finito le loro eccitanti serate.
L’orrida versione dell’Easy Rider californiano.
Sono dei nichilisti che hanno rifiutato il Sogno americano in cambio di una toppa sulla schiena, con ricamato il logo del club, per il quale si può morire? Forse, ma in cambio di cosa? Almeno si dessero alla fuga, in cerca di un mondo migliore. Invece il massimo sembra essere la rassegnazione a morire stirati per sbaglio da qualche auto o casualmente in una rissa finita male.
Il regista, che scrive anche la sceneggiatura, è Jeff Nichols, autore di storie particolari come Take Shelter, Mud, Midnight Special, e ricrea un ottimo spaccato di quell’ambiente, esteticamente e nella sostanza, che però alla fine risulta poco attrattivo, per niente coinvolgente.
Mentre riprende un armamentario così datato non si capisce bene con quale intento, perché oggi glorificare simili atteggiamenti sembra improbabile. Oppure l’intento non era glorificare, celebrare, era affossare uno dei tanti falsi miti americani, che si potrebbe riassumere nell’orrido bikerider californiano, nel quale si cela Norman Reedus, sotto una parrucca arruffata e una protesi di finti denti marci. Non proprio il gentile cavaliere di Peter Fonda insomma.
La rombante scorrazzata di gruppo, un classico.
Non c’è grandezza in nessun personaggio. Non si avverte la pressione ostile della società benpensante, pavida e rigida di quegli anni, manca il fiato sul collo da parte delle forze dell’ordine (qui quasi assenti) come nel Selvaggio, non c’è la tensione verso Love & Peace con il rifiuto della violenza di Easy Rider, e soprattutto manca la tensione “shakespeariana” di Sons of Anarchy.
Perché dove c’è un gruppo che detiene una anche risibile forma di potere, ma si dà un nome, una struttura, delle regole, c’è un leader. E ci sono i suoi accoliti, ci sono quelli fedeli e quelli invidiosi. E c’è un erede, che non è detto voglia esserlo.
E ci sono altri gruppi che insidiano il primato, che vorrebbero essere accolti o dare la scalata al gruppo primario. Tutto questo affiora nel film ma in modo vago, poco incisivo. Quello che è chiaro è che siamo delle bestie sociali, che amano radunarsi in gruppo, ma che appena possono ingaggiano lotte selvagge contro chi sia appena a un passo dal loro cerchio magico.
Ma non ci sarebbe bisogno di andare in giro a far vibrare le pareti delle case con il rombo di uno stuolo di Harley, per far capire come si rifiuta una way of life odiosa, come si esce di scena senza tanto inutile frasuono. Basterebbe chiedere al cavaliere solitario Kowalski di Punto zero, anno 1971, e alla sua candida, elegante Dodge Challenger.
Scheda tecnica:
Regia: Jeff Nichols
Cast: Austin Butler, Jodie Comer, Tom Hardy, Boyd Holbrook, Mike Faist, Michael Shannon, Norman Reedus, Damon Harriman, Paul Sparks, Toby Wallace
Distribuzione: Universal Pictures
Genere: drammatico, azione