The Apprentice ci racconta com’era Donald Trump intorno ai 30 anni, quando imparava “l’arte di fare affari” grazie a un discutibile maestro che ha poi superato.
Abbiamo già detto che anche il serial killer più efferato, il leader politico più feroce, il soldato più sanguinario, il truffatore più cinico sarà stato un tenero piccino, che non sapeva cosa sarebbe finito a fare da grande.
Così anche Donald Trump, ex Presidente (e forse nuovo, prossimo) degli Stati Uniti d’America, idolatrato dai suoi seguaci/fan e parimenti detestato da detrattori/haters, è stato un povero fanciullino, vessato da un padre sprezzante, immobiliarista e speculatore che poi, da adulto, non gli permetteva di far il grande salto di qualità, smettendo di passare a riscuotere gli affitti delle casacce popolari di cui erano proprietari, insultato dagli inquilini.
Così, negli anni della New York da bere, in mezzo alle mille luci dei VIP anche per una notte, degli affaristi stile Patrick Bateman di American Psycho, dei club esclusivi dei riccastri (e delinquenti) che sempre se la cavano acrobaticamente fra mille escamotage più o meno legali, il baldo ha pensato “e perché io no” e si è buttato nella mischia.
Mai però avrebbe potuto farlo con tale risultato se non avesse avuto la guida dall’avvocato Roy Cohn, mostruoso personaggio che arrivava dal maccartismo, con un carnet professionale pieno di miliardari e mafiosi, noto per essersi battuto per comminare la pena di morte ai coniugi Rosenberg da Vice Procuratore dello Stato e poi braccio destro del famigerato Senatore Joseph McCarthy.

Il Maestro e l’Apprendista.
Donald inizia a muoversi nel mondo della speculazione edilizia, rimette a nuovo l’Hyatt Hotel, costruisce la sua Trump Tower, si espande ad Atlantic City e da lì altri progetti grandiosi che però sono come uno schema Ponzi, tutto costruito sui debiti. Intanto conosce, corteggia accanitamente e sposa Ivana, e subito se ne disamora.
Soprattutto impara assai bene le regole essenziali di Cohn, attaccare sempre, negare tutto, non ammettere mai la sconfitta, e supera in cinismo il suo maestro. Come cantava Sting con i Police “I will turn your face to alabaster, when you’ll find your servant is your master”. Intanto New York si avvia al suo percorso di risanamento che l’ha fatta diventare The Big Apple e imperversa l’Aids, negato dal sindaco Koch, omosessuale mai dichiarato.
A interpretare Trump, aiutato da trucco prostetico e parrucchino, è Sebastian Stan, con un risultato sorprendente. Maria Bakalova, ben scelta, è Ivana, la moglie rampante quanto lui ma non abbastanza e Martin Donovan è truccato anche lui per somigliare al padre di Donald, Fred.

Il glamour degli eighties.
A dominare la scena è però Jeremy Strong, l’attore lanciato dalla serie tv Succession, che rende indimenticabile il suo Roy Cohn, inquietante, viscido, subdolo, eppure, alla fine, inferiore al suo allievo.
Dirige l’iraniano/danese Ali Abbasi, dopo Holy Spider, Border e alcuni episodi di The Last of Us, su sceneggiatura del giornalista Gabriel Shermn, già autore di The Loudest Voice, sullo scandalo riguardante Roger Ailes di Fox News.
Il titolo del film si rifà a quello dello show che aveva risollevato la figura appannata di Trump (6 bancarotte negli anni ’90), gran successo per ben 14 stagioni dal 2004 al 2017 (da noi replicato con la conduzione di Briatore).

La vita può essere una winding road anche per gli aspiranti miliardari.
Si è in parte avverato quanto, da non-fan di Donald temevamo. Non solo ne esce quasi martirizzata la figura di Cohn, personaggio davvero spregevole, omosessuale responsabile di feroci persecuzioni ai danni di altri omosessuali sotto il maccartismo, visto anche nelle serie tv Angels in America (in cui era interpretato da Al Pacino, che di “avvocati del diavolo” se ne intendeva) e Compagni di viaggio.
Di lui si è parlato in tre film e anche in un episodio di X Files, campione di cinica ipocrisia, sostenitore dei Grandi Valori della sua adorata patria, che però infrangeva con metodi illegali, intercettazioni e ricatti, per fare gli interessi dei suoi clienti e amici, per ampliare il suo giro di influenze, morto di AIDS negandolo fino all’ultimo.
Ma almeno relativamente al periodo storico in questione, da fine anni ‘70 a fine ’80, Trump sembra semplicemente un Wolf non solo di Wall Street, cresciuto da un padre meno megalomane di quanto lui diventerà, per sconfiggere i suoi pregiudizi.

Ah, la solitudine del Potere…
Questo Trump, ossessionato dal peso e dalla calvizie, sembra quasi una vittima inconscia del Sistema che forgia i suoi rappresentanti più degni e se non ce la fai sei un miserabile loser, con la chiusa sul grande capitalista megalomane, che si vanta del suo “killer instinct”, convinto che arricchirsi anche sulla pelle del resto del mondo sia amare il proprio paese.
The Apprentice, distribuito da BIM, è un film che potrebbe non dispiacere del tutto al “Tycoon”, tranne che per un episodio sgradevole con la moglie, che sembra però da lei confermato e temiamo quindi che comunque porti acqua al suo mulino, nel descrivere l’ascesa al successo a qualunque costo di un affarista senza scrupoli, tema caro al cinema americano.
Perché indubbiamente c’era una stoffa di qualità diversa e questo potrebbe, per certi, confermare la sua “grandezza”. Anche certi gangster in effetti hanno avuto dei momenti di indiscutibile “gloria”.

Ma come diceva Robert Kennedy, se è vero che il benessere di un paese non si misura con il PIL, anche la statura di un personaggio non può corrispondere al suo successo finanziario/affaristico. A meno che non si parli di Paperon de’Paperoni, ovviamente, ma non è questo il caso.
Scheda tecnica:
Regia: Ali Abbasi
Cast: Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova, Martin Donovan, Patch Darragh, Catherine McNally
Distribuzione: BIM
Genere: biografico, drammatico