Lo stile di vita giapponese è fra i più diversi dal nostro e romanzi e film ci hanno insegnato a invidiarlo: sarà giusto?
L’erba del vicino è sempre più verde, si sa. Sempre che non si sia degli ostinati nazionalisti, ma dei “cittadini del mondo”, gli usi e i costumi, la cultura, il cibo, l’architettura e la natura di paesi da noi lontani ci hanno sempre incuriosito, attratto, facendo presa su di noi a seconda delle nostre inclinazioni personali, delle nostre passioni.
Chi ama di più la natura, chi il cibo, chi è più attento a cose sociologiche e chi a filosofie di vita. Tutti, a patto di essere viaggiatori responsabili, avranno trovato motivo di interesse diverso nel proprio girovagare esterno, disposti ad accettare quella diversità, anzi ricercandola, perché rende più interessante la conoscenza degli altri.
Un paese che ha sempre attratto gli occidentali, per gli stessi motivi per cui ne potrebbe respingere altrettanti, è il Giappone, paese passato attraverso incredibili traversie storiche, approdato a una monarchia costituzionale, in cui l’Imperatore è solo simbolo della nazione, che è retta da parlamento eletto a suffragio universale, dopo anni di sudditanza e soggezione a un potere assoluto.
Devastato dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale, ha saputo risollevarsi, aprirsi all’Occidente, superandolo anche a volte dal punto di vista tecnologico, accogliendo un turismo di massa inimmaginabile un tempo, senza farsi però contaminare troppo, restando fedele a molte delle sue antiche regole di vita, a usi e costumi che fanno parte del DNA di ogni individuo, rispettosi di tradizioni che potrebbero sembrare sorpassate.

I piaceri della semplicità in Perfect Days di Wim Wenders.
Non per niente proseguono, anche se non dichiarate, le rigide divisioni sociali che hanno afflitto il paese per secoli, anche se in forma meno drastica. Anche il rifiuto di un apprendimento di massa della lingua inglese, motivo che rende a volte ostici i soggiorni turistici, ha un suo senso distorto.
Viene considerata una lingua relegata al turismo, è difficile da pronunciare e per un giapponese fare una cosa che non sia perfetta, costituisce un vero blocco.
Tanto cinema ci ha raccontato la fascinazione del viaggiatore occidentale, lo straniamento del turista per caso, lo stupore ma anche l’ammirazione per modi di vivere, di comportarsi tanto diversi dai nostri.

Viaggio in Giappone per Isabelle Huppert
Sono tutti necessariamente migliori, da imitare, da invidiare? La domanda avrà risposte diverse a seconda dell’animo di chi rispondesse. Vero è che per l’occidentale scontento, in preda a vari sensi di colpa, snobisticamente intento a disprezzare quanto ha, invidiare stili di vita anche se troppo differenti, è diventato una moda.
Come sempre letteratura e cinema ci hanno raccontato tante storie su questo paese, e due film usciti in questo periodo ci hanno stimolato la riflessione. Il primo è Perfect Days, scritto (insieme a Takuna Takasaki) e diretto da Win Wenders, autore assai amato dai cinefili, che di Tokyo si era già occupato con il bel documentario Tokyo Ga del 1985. Il film è interpretato dal giapponese Koji Yakuso.
L’altro è Viaggio in Giappone, diretto da Elise Girard e scritto insieme a Maud Ameline, interpretato dall’algida diva francese Isabelle Huppert. Il primo, attraverso lo stile di vita del protagonista, si fa portatore di un messaggio esistenziale profondo, nel secondo il nuovo ambiente provoca una rinascita emotiva in quella che inizialmente è solo una perplessa turista per lavoro.

Tom Cruise, l’ultimo samurai.
Ma vogliamo ricercare altri titoli del passato, che illustravano lo spaesamento, lo stupore, lo scetticismo e poi la fascinazione che hanno spesso colto l’occidentale al suo sbarco in Giappone.
Perfino Ian Fleming nel suo romanzo Si vive solo due volte (1964), divenuto film con Sean Connery era rimasto colpito da abitudini e comportamenti per noi astrusi. Intendiamo parlare di film realizzati da autori occidentali, perché il primo sguardo che i cinefili hanno dato a quel lontano paese, avanti di quasi otto ore rispetto a noi nel fuso orario, lo devono al regista Akira Kuorosawa.
Uno dei primi giapponesi a essere distribuito in Italia, ha influenzato registi di mezzo mondo. Autore di film memorabili come Rashomon, il cui remake è stato interpretato da Paul Newman, nel 1964, tramutandolo in un western nel film L’oltraggio, così come I sette samurai, a sua volta rifacimento del film sempre di Kurosawa che si svolgeva invece nel Giappone del 1500.

In Letters fron Iwo Jima Clint Eastwood si interroga sul patriottismo giapponese.
Altri grandi registi sono stati Nagisa Ōshima, Kenji Mizoguchi, Yasujiro Ozu, Kenji Mizoguchi, che ci hanno però mostrato il loro mondo dall’interno, e a far re-innamorare i più giovani di quel cinema, sono arrivati Takeshi Kitano e Takashi Miike. Un caso a parte Hayao Miyazaki che con la sua casa di produzione Ghibli ha realizzato una serie di capolavori in animazione nell’arco di circa 40 anni.
Ma lo sguardo ammirato, perplesso, stupefatto, ironico, preoccupato con cui volta per volta gli occidentali hanno guardato a quel paese appartiene ad altri film. Era bastato Il ponte sul fiume Kwai nel 1957, per farceli considerare degli aguzzini più feroci dei nazisti.
Molti anni dopo ci penserà Clint Eastwood a interrogarsi sulla loro intensità patriottica in Lettere da Iwo Jima (anche l’ultimo trattamento del mostro Kaijū dei film prodotti da Toho, Godzilla Minus One, produzione giapponese, ci offre un ritratto più variegato di un popolo votato al sacrificio in nome della Patria ma ormai con meno certezze che in passato).

Le donne al servizio degli uomini (Memorie di una geisha).
Spaziando fra vari generi, citiamo anche Shogun (film del 1980 con Richard Chamberlain, tratto dalla serie tv), il cui remake sta per arrivare in streaming su Disney +. All’origine c’è il romanzo di James Clavell scritto nel 1975. Un occidentale naufraga sulle coste del Giappone in epoca feudale e diventa il primo samurai non giapponese.
E’ invece nel 1876 che arriva in Giappone Nathan Algren (Tom Cruise), reduce devastato dagli orrori della guerra civile e dalle stragi di indiani, nel bel film del 2003 L’ultimo samurai, in un momento storico aperto alla modernizzazione. Memorie di una geisha (2005) è invece una storia poetica e romantica, tratta dal romanzo di Arthur Golden, che racconta di antiche e crudeli usanze che penalizzavano soprattutto le donne.
La Neve Cade sui Cedri (1999), tratto dal romanzo di David Guterson (1994), ambientato in America nello Stato di Washington, racconta eventi avvenuti dopo Pearl Harbor, in anni in cui era ancora forte l’ostilità degli americani nei confronti degli immigrati giapponesi, che durante la guerra erano stati rinchiusi in duri campi di concentramento. Soggetto questo anche del drammatico Benvenuti in paradiso, diretto da Alan Parker, con Dennis Quaid.

Il divo Richard Chamberlain è il primo shogun occidentale.
Silence, diretto da Martin Scorsese nel 2016, tratto dal romanzo scritto nel 1966 da Shūsaku Endū, racconta un tragico scontro fra religioni, attraverso le persecuzioni subite dai cristiani in Giappone nel corso del 1600, con il martirio di un gruppo di gesuiti (stesso soggetto del film Chinmofu, del 1971, diretto dal giapponese Masahior Shinoda).
Ma un altro film che aveva fatto scalpore, di ben altro argomento, era stato lo scabroso Tokyo Decadence, del 1992 diretto da Ryu Murakami e basato su un suo romanzo, che gettava uno sguardo su un mondo in cambiamento a causa di un momento di boom economico (la “ricchezza senza dignità”), nel gelo dei rapporti personali e sessuali mutuati su antichi classismi.
Una commedia è invece The Ramen Girl, di Robert Allan Ackerman (2008), che ci invita a scoprire la cultura giapponese attraverso la cucina. Una ragazza americana (Brittany Murphy) si ritrova sola e delusa lontana da casa e la preparazione del ramen la aprirà a una nuova vita. (In ambito gastronomico, segnaliamo un prodotto giapponese, una serie tv che si trova su Netflix, Midnight Diner: Tokyo Stories, anch’essa molto istruttiva).

L’angosciante durezza degli aguzzini di Furyo.
Emperor, del 2012, con Matthew Fox e Tommy Lee Jones, è ambientato poco dopo al fine della Seconda Guerra e racconta del viaggio fatto in Giappone nel 1945 dal Generale MacArthur, che deve gestire la “vendetta” del dopo guerra e la punizione del “criminale di guerra”, l’Imperatore Hirohito.
47 Ronin del 2013, ricco di divi d’azione, si ispira alla storia leggendaria di un gruppo di samurai che nel XVIII si erano ribellati al loro crudele Shōgun, in un momento di cambiamento politico e culturale, con i temi di vedetta e onore in primo piano (sul tema altri due film nel 1957 e 1962).
Il divo Richard Gere si è misurato con quell’affascinante paese sia con il remake della toccante storia del cane Hachiko (due film, 1987 quello giapponese, 2009 questo diretto da Lasse Hallström), sia in Rapsodia d’agosto di Akira Kurosawa (1991), sulla rimozione del trauma della bomba atomica.

Ragazze pop in Tokyo Drift.
Come dimenticare Furyo, con la mitica abbinata David Bowie/Ryūichi Sakamoto, ambientato in un campo di prigionia durante la Seconda Guerra, che rendeva evidente come almeno sull’omofobia, Occidente e Oriente fossero purtroppo in sintonia.
Michael Douglas in stile molto eighties vendicherà l’amico Andy Garcia nel noir Black Rain, battendosi contro feroci killer della Yakuza e la corruzione della Polizia. Le strade di Tokyo hanno ospitato perfino gare stile Fast & Furious con il film Tokyo Drift del 2006.
Perché ci sono stati anche film commerciali che hanno guardato con curiosità e interesse a quel mondo, come Sol levante, tratto nel 1993 da un romanzo di Michael Crichton, noir commerciale ma con precisi riferimenti alla cultura locale. Anche Jean Reno ha “assaggiato” le stranezze del paese nella commedia d’azione Wasabi (2001).

Tutti sono intolleranti, quando si parla di religione (una scena da Silence).
E ci sono stati tutti gli innumerevoli film sulle feroci regole medievali della Yakuza, che avevamo imparato a conoscere anche grazie al film con Robert Mitchum, con la regia di Sidney Pollack nel 1974, in cui echeggiavano nella loro violenza degenere le antiche regole dei samurai.
Poi ci siamo fatti spaventare dagli horror della serie di film The Ring (Ringu), appassionandoci a usanze diverse dalle nostre anche in quel genere. Anche un film e una serie come Il caso Minamata e Fukushima, che trattavano delle omertà e delle bugie di Stato, hanno evidenziato approcci diversi anche rispetto a catastrofi e corruzione.
Ma vogliamo arrivare al film che forse aveva più colpito l’occidentale medio, ignorante di quella nazione lontana come un’astronave, la malinconica commedia Lost in Translation, in cui il momentaneo spaesamento dovuto a usi così diversi e a una lingua incomprensibile portava a maturazione la crisi personale di due personaggi molto diversi.

L’horror in chiave orientale, The Ring.
Per tornare all’inizio di questo articolo, l’osannato Perfect Days esalta un modo di vivere minimale, una concezione stile “La felicità delle piccole cose” (libro di Caroline Vermalle) che tutti vagheggiano ma vorremmo vedere quanti poi sono disposti a seguire.
Sbagliando, perché anche senza finire a esercitare l’umile lavoro del protagonista, essere capaci di disgiungere il conseguimento della serenità (almeno) dal proprio lavoro, ricavando conforto per il proprio animo da qualche piccolo attimo personale, sarebbe cosa giusta e saggia.
Mentre è più di maniera la descrizione dell’incontro scioccante con il mondo giapponese, con tutte le sue regole per noi abbastanza astruse, da parte della Huppert, che in Viaggio in Giappone interpreta una scrittrice che riuscirà a uscire dal suo lutto in un paese che ha il culto dei fantasmi.

La passione locale per il karaoke in una scena di Lost in Translation.
Si tratta di due film usciti quasi contemporaneamente, in cui la frequentazione di diversi caratteri, differenti stili di vita, ottiene l’effetto di migliorare le vite di tutti e allo spettatore sembra che anche lui potrebbe trarne insegnamento.
Attenzione però a vagheggiare esistenze tanto diverse dalle nostre, finendo per invidiare modi di vivere che non accetteremmo, usanze che abbiamo lottato per abbandonare, una visione dei rapporti umani che non saremmo capaci di condividere.
Coltiva il tuo giardino invece di invidiare l’erba del vicino, traine spunto per quanto riguarda il metodo di cura, eventualmente, ma ricorda sempre che siamo tutti esseri umani diversi e ogni modello non va applicato alla cieca, ma adattato a chi lo vuole ricevere. Non tutti i modelli infatti sono esportabili e le fascinazioni sono spesso ingannatrici.